Tutti qualche volta abbiamo acquistato un cibo
“pastorizzato” o abbiamo sentito decantare le virtù della birra cruda in
opposizione a quella pastorizzata. Il sostantivo deriva dal nome di colui che ideò il processo: il chimico e biologo
francese Louis Pasteur (Dole, 27 dicembre 1822 – Marnes la Coquette, 28
settembre 1895), padre della microbiologia.
La procedura di pastorizzazione fu ideata per curare i
“malanni” della birra. Infatti, il mosto di birra, ovvero l’infuso di malto e
luppolo, è ricco di zuccheri fermentabili che vengono utilizzati da diversi
funghi e batteri, talvolta con intensità paragonabile a quella del lievito di
birra e portano alla formazione di sostanze sgradevoli al palato. Infatti, durante
la fermentazione alcoolica da parte dei lieviti, non si produce solo alcool a
partire dagli zuccheri del mosto, ma anche un‘ampia gamma di sostanze più o
meno volatili, dall’acido succinico a una serie di esteri (combinazioni di
acidi ed alcoli), oltre che alcuni prodotti solforati. Non solo, molte cellule
dei lieviti durante questo processo muoiono e quindi spargono nel mosto il
contenuto delle loro cellule, che oltre alle preziose vitamine che sono alla
base delle proprietà farmacologiche dei lieviti, è costituito da sostanze
metaboliche e cataboliche, ovvero i prodotti di degradazione delle vie
metaboliche. Il grande vantaggio del Saccharomyces cerevisiae, il comune
lievito di birra, è che le sostanze “aromatiche” che produce sono gradevoli al
palato.
Quindi, Pasteur doveva scoprire come distruggere i
micro-organismi “cattivi” senza perdere quelli buoni. Sapeva che il calore è un
ottimo disinfettante, ma ha lo svantaggio di far evaporare il gas carbonico dalla
birra che quindi diventa “liscia” e perciò poco palatabile. Pasteur decise
quindi di riscaldare la birra imbottigliata, che, per ragioni fisiche, perdeva
molto meno gas, portandola a una temperatura non troppo alta, tale da uccidere
i germi dannosi senza alterare troppo le proprietà della bevanda. Nasceva così
la pastorizzazione.
Oggi tale processo si applica anche ai vini per evitarne
l’acidificazione e la conseguente trasformazione in aceto oltre che a una
incredibile quantità di prodotti alimentari.
Anche in questo caso
c’è lo zampino di Pasteur. Infatti, i viticoltori francesi avevano il problema
che certe botti, in cui facevano fermentare il vino, producevano una bevanda
acidula e imbevibile che nel tempo si trasformava in aceto. Pasteur con l'aiuto di un microscopio scoprì
che sul fondo delle botti esisteva una patina di micro-organismi a forma di
bastoncino, dei bacilli. Con una piccola
sperimentazione, capì che aggiungendo questi bacilli a del vino si innescava
una nuova fermentazione che trasformava l’alcool in acido acetico e quindi in
aceto. Anche in questo caso, oltre alla disinfezione delle botti prima dell’uso,
la pastorizzazione evitava che il vino imbottigliato si trasformasse in aceto.
E come rovescio della medaglia, l’aceto è un prodotto
alimentare prezioso e conosciuto e usato fin dall’antichità, tanto che se ne
trova menzione nella Bibbia e nei ricettari di Apicio (Marco Gavio Apicio, 25
a.C.-37 d.C.) il gourmet romano famoso ancora oggi, anche se non ha mai
partecipato a Mastechef. Usato per le sue proprietà conservanti e per quelle
aromatizzanti, oggi l’aceto si declina in varie forme, dagli aceti balsamici
alle glasse.
E ovviamente, l’industria agroalimentare cerca di lasciare
il meno possibile al caso. Chi ha avuto la (dubbia) fortuna di assaggiare un
vino fatto in maniera totalmente tradizionale, ossia usando fermenti naturalmente
presenti sulla buccia degli acini d’uva e non fermenti selezionati, sa
esattamente che differenza c’è con una bottiglia di vino preparata con fermenti
selezionati e stretto controllo microbiotico del mosto in fermentazione.
L’industria ha bisogno di fermenti che siano in grado di mantenere gli standard
produttivi durante tutto il periodo delle lavorazioni e possibilmente in modo
ripetibile nel tempo, al netto delle necessarie variazioni annuali. Infatti, se
la stagione può influenzare alcune qualità delle uve sottoposte a
fermentazione, una buona cantina non cambia lievito, o meglio miscela di
lieviti (detti starter), per la fermentazione. Oggi esistono industrie
microbiologiche specializzate nella produzione di starter per fermentazioni,
per la produzione di una vasta gamma di prodotti che, oltre al vino e alla
birra, annoverano yogurt, formaggi, salumi, biscotti, pani, ecc.
Insomma, che siate il gestore di un impianto per la
produzione di “Pan Bauletto” della nota ditta che fa fare la pubblicità a
Banderas o il piccolo produttore di birra artigianale che fermenta meno di 100
kg di malto, sappiate che il vostro prodotto ha bisogno del microbo giusto, e
che il microbo sbagliato, nonostante le microscopiche dimensioni, potrebbe
battervi in malo modo.
Altro che Davide e Golia!
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