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Nuove tecnologie per la tracciabilità della filiera vite-vino

Per soddisfare l'interesse mostrato dai nostri lettori e dare la possibilità a tutti di consultare i dati emersi durante l'incontro che si è svolto il 27 maggio al Conference Center di Milano,  abbiamo creato questo Storify.
Video presentazione dell'evento che si è svolto il 27 maggio al Conference Center di Milano Expo 2015: La sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vite-vino.
 
Leggi anche: Vivaio Ricerca post evento "La tracciabilità della filiera vite-vino"




Insieme al CNR: Bionat Italia, Cisco Systems, Penelope, Valoritalia e Fazio Wines.

Una nuova piattaforma tecnologica, definita ICGENE e dedicata alle analisi genetiche a beneficio della tracciabilità e della certificazione delle filiere agroalimentari, sarà presentata il 27 maggio, all'Expo di Milano, da Bionat Italia, nel corso dell'evento "la sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vite-vino".
Foto tratta da Google Immagini
Piero Manna dell'Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo di Napoli, il 27 maggio 2015 all'Expò di Milano durante l'evento La sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vite-vino, indicherà agli ascoltatori un percorso che dal suolo, attraverso le radici e le piante di vite, giunge sino agli acini e quindi al vino.

Foto tratta da Google Immagini
Un percorso che in un certo senso è lo stesso che percorrono i “marcatori” scelti per l’argomento tracciabilità, cioè gli isotopi dello Stronzio. Questi isotopi sono elementi pesanti della tavola periodica che hanno massa leggermente differente tra loro. In pratica sono forme diverse dello stesso elemento, lo Stronzio. Li ritroviamo nei suoli in un rapporto ben specifico; in parte essi vengono assorbiti dalle radici senza subire alterazioni. Li ritroviamo quindi nei tessuti della pianta, negli acini ed anche nel vino, così come sono nel suolo, vale a dire nello stesso rapporto isotopico. 

Foto tratta da Google Immagini
Gli isotopi infatti restano stabili anche durante le fasi di lavorazione delle uve per l’ottenimento del vino. Questo ci consente di “legare” il vino come prodotto finito, al territorio ed ai suoli, perché sarà possibile affermare che se in un suolo è presente un certo rapporto isotopico, quello stesso rapporto lo ritroviamo nel vino. In pratica un sorta di caratteristica identificativa univoca. Oggi è molto importante per il consumatore conoscere la provenienza di un prodotto alimentare; non solo da quali uve un vino viene generato ma anche dove, in che luogo, questo avviene.

Il sistema poroso molto complesso del suolo (composto da minerali, acqua aria e materia organica) che abbraccia ed accoglie le radici delle piante instaurando con queste un mutuo equilibrio, ne influenza tutti i processi vitali.


I suoli non sono uguali dappertutto, variano molto nello spazio, variano nelle caratteristiche chimiche e fisiche e quindi variano anche i suddetti rapporti. In pratica piante identiche cresciute su suoli diversi saranno anch’esse diverse. Saranno diverse nell’aspetto ma anche nei processi che conducono alla produzione dei frutti (in questo caso gli acini che compongono i grappoli) e quindi anche il vino da essi ottenuto sarà diverso. I vini quindi “sono ciò che le viti assimilano con le radici”. Vini diversi su suoli diversi;

In questo caso quindi parliamo di “tracciabilità” non per definire il vitigno di origine di un vino, bensì per individuare in maniera univoca il luogo ed i suoli sui quali il vino è stato prodotto

Per farlo c'è bisogno di un marcatore stabile, un “tracciante” presente naturalmente nei suoli che leghi indissolubilmente i vini con i territori che li hanno prodotti;

Questo marcatore necessita di almeno due requisiti fondamentali: 
  • Deve essere in grado di discriminare diverse aree geografiche… ed in particolare diversi contesti geopedologici
  • Deve essere un vero marker della filiera (dal territorio al prodotto finale); quindi NON deve essere influenzato dal clima, dalla gestione agronomica, dalle tecniche di trasformazione e dallo stesso inquinamento ambientale.

Una delle alternative è l’analisi isotopica degli elementi pesanti (Stronzio in questo caso) generalmente presente nelle produzioni agrarie in tracce (cioè in quantità bassissime)

Lo stronzio nelle diverse forme isotopiche, non avendo un ruolo metabolico importante nelle piante viene assorbito in quantità molto basse e non subendo fenomeni di frazionamento il rapporto isotopico presente nei suoli in cui sono immerse le radici è lo stesso che ritroviamo nei tessuti delle piante, negli acini, nel mosto e nel vino. Il rapporto isotopico dello stronzio è quindi un eccellente indicatore delle aree di provenienza.

Diversi studi dimostrano che tali rapporti restano inalterati anche durante le diverse fasi tecnologiche della filiera

Il rapporto isotopico delle stronzio relativo ad una stessa area di produzione resta pressoché inalterato dal suolo al vino, nonostante il confronto venga fatto su vini prodotti con tecniche di vinificazione diverse. 

Il rapporto isotopico dello stronzio resta pressoché inalterato, dal suolo al vino, in una determinata area di produzione ma differente tra aree di produzione diverse
Il rapporto isotopico cambia tra vini provenienti dallo stesso vitigno ma con piante localizzate in aree diverse, a poche decine di metri le una dalle altre. Questo dimostra inoltre che simili marcatori possono fungere da identificativi molto specifici.


E se il rapporto isotopico venisse adoperato in etichetta come ulteriore garanzia della provenienza di un vino? Come una sorta di codice identificativo? Ad esempio: vino D.O.C.G. prodotto sulle colline XXXX; rapporto isotopico dello stronzio 0.709.

Il prossimo 27 Maggio Giovanni Agati, dell'Istituto di Fisica Applicata “Nello Carrara” (IFAC-CNR) di Firenze all'Expò di Milano, durante l'evento "La sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vite-vino", spiegherà come un occhio elettronico può selezionare l’uva nel vigneto.

Un vino di ottima qualità può essere prodotto solo da uva di ottima qualità.

Forse non tutti gli enologi saranno d’accordo, specialmente quelli bravi che conoscono a fondo i trucchi del mestiere di lavoro in cantina, ma un prodotto al top può essere ottenuto partendo da un'uva raccolta nel vigneto all’apice della maturazione.

Maturazione significa avere un adeguato contenuto di zuccheri, che si può valutare direttamente nel vigneto assaggiando gli acini, oppure aiutandosi con un piccolo strumento ottico, il rifrattometro, che misura gli zuccheri disciolti nel succo anche di un singolo acino.


Importantissima è anche la cosiddetta “maturazione fenolica”, che nell’uva rossa è massima quando massimo è il contenuto di pigmenti rossi nella buccia. Questi pigmenti si chiamano Antociani, sono antiossidanti, e sono importanti perché conferiscono al vino prodotto colore, ma anche struttura e stabilità nel tempo.

Dall’analisi visiva del colore degli acini non è facile giudicare se il livello di Antociani in prossimità della vendemmia ha raggiunto il suo valore massimo. Perciò, quello che viene normalmente fatto per valutare la maturazione fenolica e di raccogliere un certo numero di acini in varie parti del vigneto, portare il campione in laboratorio e misurarne il contenuto di Antociani con analisi chimiche che richiedono tempo e l’uso di solventi nocivi per l’ambiente.


Ma oggi esiste “l’occhio elettronico”.
Questo è un sensore ottico che irraggia il grappolo con la luce di un sistema di LED ed è così sensibile da misurare la FLUORESCENZA che esce dal grappolo irraggiato.

La FLUORESCENZA, questa sconosciuta, è luce di un certo colore emessa dagli oggetti esposti ad una lampada od anche esposti al sole.

L’abbiamo mai incontrata nella nostra vita? Certo, probabilmente tutti i giorni, ma non ce ne accorgiamo perché nella maggior parte dei casi la sua intensità è molto minore rispetto alla luce riflessa.

Ad esempio nelle vecchie discoteche, nella penombra, gli abiti bianchi erano irraggiati da luce ultravioletta e apparivano blu. Quella luce blu era FLUORESCENZA.

Come un materiale irraggiato con luce blu possa generare luce gialla o rossa e, ancora di più, come radiazione invisibile (ultravioletto) possa essere trasformata in luce visibile ha qualcosa di magico.


Una sostanza irraggiata con luce blu emette fluorescenza gialla.



Nelle piante e nei frutti la fluorescenza è di colore rosso ed è prodotta dalla clorofilla.
Non ce ne accorgiamo, perché la frazione di luce riflessa verde è molto più intensità della fluorescenza, ma nascosta la fluorescenza c’è.

L’occhio elettronico è progettato in modo da misurare la fluorescenza della clorofilla dei grappoli anche nel vigneto in presenza del sole. Ed il segnale di fluorescenza sarà tanto più intenso quanto più luce riusciamo a far arrivare alla clorofilla.



Quando l’uva matura, si accumulano pigmenti nella buccia che filtrano la luce incidente, proprio come un paio di occhiali da sole. 





Ciò comporta che meno luce riesce a raggiungere la clorofilla al disotto della buccia e di conseguenza minore sarà la fluorescenza che si riesce a misurare. Tanto minore quanto maggiore sarà l’accumulo degli Antociani.



Si ottiene così un indice dell’accumulo di pigmenti nella buccia e quindi un indice della maturità fenolica. 
Per quanto riguarda l’utilizzo del sensore nel vigneto, la misura può essere ripetuta nel tempo sugli stessi grappoli in modo da prevedere con precisione la data ottimale di vendemmia.


L’occhio elettronico può fornire anche l’informazione sulla eterogeneità spaziale della maturazione del vigneto: in questo caso, i dati vengono presentati in mappe colorimetriche che possono essere elaborate per indicare zone a maggiore e minore maturazione.
L’agronomo, con la mappa caricata nel suo smartphone, è tutto felice perché può così guidare con precisione una vendemmia selezionata.



L’uva con maggior contenuto in fenoli sarà destinata alla produzione di vini di più alta qualità e fascia di prezzo superiore. Mentre l’altra è destinata ad un prodotto inferiore e prezzo più basso.
Ciò rappresenta sicuramente una tecnica innovativa e vantaggiosa per il produttore, ma anche un mezzo utile per il consumatore che in un futuro molto vicino, leggendo il QR code di una bottiglia in negozio, potrà visualizzare sul cellulare l’area esatta di un vigneto da cui proviene l’uva del vino che sta scegliendo.

Esiste un modo per poter collegare scientificamente un vino al vitigno che ha dato le uve per produrlo e al luogo dove quelle piante erano coltivate?

La risposta a questa domanda sarà data il 27 maggio prossimo all'Expò di Milano durante l'evento: La sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vino-vite, la forniranno Anna Schneider dell'Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante (IPSP); Ex Istituto di Virologia Vegetale (IVV-CNR) di Torino, Francesco Carimi dell'Istituto di Bioscienze e Biorisorse (IBBR-CNR) di Palermo e Roberto De Michele dell'Istituto di Bioscienze e Biorisorse (IBBR-CNR) di Palermo.

Quando si parla di Nebbiolo, Sangiovese, Ribolla gialla, Nerello mascalese, Barolo, Chianti, Collio, Etna, si pensa subito a varietà di vite (vitigni) e a zone rinomate di produzione dei vini (che si ottengono da quei vitigni): sono territori (i cosiddetti “terroirs”) di elezione per quei vitigni, che danno lì, e solo lì, quei vini particolari.


Molti consumatori, ma anche molte aziende vitivinicole tengono in gran conto alla cosiddetta tracciabilità di un vino, il modo cioè per poter collegare scientificamente un vino al vitigno che ha dato le uve per produrlo e al luogo dove quelle piante erano coltivate.

Nebbiolo e Barolo, Sangiovese e Chianti, Ribolla gialla e Collio, Nerello mascalese e Etna sono vitigni tipici, tradizionali, da lungo tempo coltivati in quei determinati luoghi. Sono l’”essenza” di quei vini: quei vini hanno quell’aspetto, quell’odore, quel sapore unico (e ritenuto da tutti buono) perchè fatti in quei luoghi con un certo vitigno.

In Italia abbiamo numerosi e assai diversi vini di qualità perché abbiamo tanti (buoni) vitigni e tanti (buoni) territori, che da tempo hanno stretto un sodalizio. Abbiamo tanti “terroirs”, perché l’Italia è un calendoscopio ecologico e socio-culturale, un insieme variegatissimo di ambienti fisici e di tradizioni eno-gastronomiche

Ma abbiamo anche tantissimi vitigni, in numero spesso anche molto maggiore di altri paesi europei: quello che si dice una ricca diversità. E questo per numerose ragioni, tra cui il fatto di essere una lunga penisola al centro del Mediterraneo, un mare affollato di traffici di gente e di merci fin dall’antichità. 

E infatti, insieme ai coloni, ai soldati, ai conquistatori, ai mercanti, i vitigni hanno viaggiato nei secoli, si sono diffusi e spostati da un luogo all’altro. E così facendo hanno spesso cambiato nome, perdendo quello originario che nessuno più ricordava o sapeva. Il Trebbiano toscano è diventato in Francia Ugni blanc, e Talia in Portogallo; il Pavlos greco è diventato Marastina in Dalmazia e Malvasia bianca del Chianti in Italia. 

Come se non bastasse, si è cominciato anche a chiamare con lo stesso nome vitigni diversi (e magari non tutti di qualità), soprattutto quando quel nome era prestigioso e faceva vendere meglio il vino, come per le numerose e diverse Malvasie, i Tocai, ecc., tanto che poi distinguerli dall’originale è diventato un bel problema.Una bella confusione! Per cui talora in un certo luogo si crede di coltivare un vitigno (magari giunto con quel nome) e invece ci si sbaglia: in altre parole il nome di un vitigno non sempre ne dice la giusta identità: la Malvasia nera in Toscana è in realtà il Tempranillo spagnolo, la Bonarda argentina non è la “vera” Bonarda del Piemonte, Pinot bianco e Chardonnay nel passato sono stati spesso confusi e mescolati.

Insomma, sapere con certezza il vitigno che si coltiva o con cui è fatto un vino è essenziale, perché ci sono leggi precise europee che impongono quali varietà di vite possono essere utilizzate nelle diverse regioni. E per di più, i disciplinari per la produzione dei vini ritenuti di qualità nei vari “terroirs”, stabiliscono rigorosamente il vitigno (o in vitigni) da impiegare. Insomma, si va incontro a guai se si coltiva e si mette in bottiglia Pinot bianco al posto di Chardonnay... 


Dell’importanza di distinguere i vitigni ci si accorse da tempo, ma solo verso la metà dell’Ottocento studiosi ed enologi dell’epoca vi si dedicarono compiutamente, chiamando l’attività di studio dei vitigni col nome curioso e (pensiamo oggi) un po’ d’antàn di “ampelografia”, che vuol dire “descrizione delle viti”. 

Lo studio compiuto dei vitigni, l’ampelografia appunto, sorse dunque relativamente recentemente, e precisamente quando era ormai ben chiaro che le piante di vite e le loro parti (germogli, foglie e frutti), così come il loro comportamento in campo (ad esempio la produttività, la precocità di maturazione dell’uva, ecc.), non cambiavano del tutto a seconda del luogo di coltura, bensì erano, almeno nei tratti essenziali, costanti. 

Dunque, aveva senso scegliere e distinguere i vitigni in base alle loro caratteristiche principali, perché non variavano, rimanevano, almeno in certa misura, fisse. Oggi tutto ciò ci pare scontato, perché sappiamo, dal buon Mendel in poi (quello che giocava con i piselli gialli e verdi, rugosi e lisci….), che le caratteristiche principali non variano perché sono quelle che dipendono dal patrimonio genetico di ogni individuo, e sono le caratteristiche che studia appunto la genetica. 

Insomma, una pianta di Nebbiolo avrà sempre foglie e grappoli fatti in un certo modo, e maturerà sempre tardi, avrà uve con molto zucchero (che vuol dire tanto alcol nel vino) pochi pigmenti rossi e tanti tannini (che vuol dire un vino non molto colorato che va affinato con l’invecchiamento). Anche se il contenuto di zucchero, di colore e tannini, ecc. cambierà un pochino a seconda dell’annata e del luogo di coltura (terroir!), dando vini un poco diversi gli uni dagli altri, l’”impronta” del Nebbiolo sarà sempre ben evidente. 

Siamo dunque a metà Ottocento o giù di lì, e abbiamo un bel drappello di personaggi che si mettono a studiare i vitigni. Per prima cosa vogliono esser sicuri di ben distinguerli gli uni dagli altri, di saperli ben riconoscere. E vogliono capire poi se sono delle brave piante che si comportano bene in campo (per esempio se producono bene, se resistono ai parassiti) e se danno dei vini buoni, che si vendono bene. E dagli torto su questo secondo obbiettivo, pragmaticamente economico! Il conte Odart, uno di questi “ampelografi” con cilindro e barbetta, scriveva: "Non sarebbe più utile conoscere quali specie di uve danno i vini squisiti del Capo e di Tokai piuttosto che di conoscere tutti i licheni della foresta di Epping, e tutti i muschi dell'Isola di Wight?" Davvero, come dargli torto? 

Aggiungiamo che all’epoca, grazie ad un grande allargamento del mercato del vino, a cui contribuirono proprio le famose Esposizioni universali (la prima nel 1851; in occasione di quella del 1889 a Parigi fu costruita la Tour Eiffel….) proprio come questa Milano 2015, ci si rese conto che la produzione e il commercio di vini di qualità era un settore economicamente interessante e in espansione. 

Ma come si riesce a distinguere i vitigni?
Il metodo “storico” è quello di osservare attentamente la forma dei germogli ma soprattutto delle foglie e dei grappoli: ogni vitigno ha una sua propria fisionomia che lo distingue dagli altri. Foglie grandi, piccole, molto incise o intere, piene di peli o senza, acini rotondi o ovali, di colore dorato, rossiccio, blu-nero… Ma siccome i vitigni sono tantissimi e sparsi un po’ ovunque, occorre fare annotazioni precise, accurate, con un metodo comune condiviso tra tutti coloro che li descrivono, in modo da poter confrontare le annotazioni. Di qui anche l’utilità di corredare le descrizioni con raffigurazioni di questi organi. Ed ecco perché nell’Ottocento si realizzarono splendide tavole che illustrano le uve, mentre oggi le fotografie non mancano nei libri che descrivono i vitigni. 

Tuttavia, e arriviamo al Novecento, anzi, alla fine del Novecento, c’è un altro metodo più efficiente, le cui informazioni stanno tutte racchiuse in quella famosa scala a pioli che è la molecola del DNA. Basta estrarre del DNA dalla pianta (da un germoglio, da una foglia, da un chicco d’uva, oggi anche dal vino, come vedremo), e da esso ricavare un’impronta genetica (fingerprint) che distingue quel vitigno dagli altri, proprio come i detectives di CSI fanno in campo umano. E’ il tramonto dell’ampelografia “classica”, quella basata sui caratteri visivamente diversi delle piante? 

Non ancora, perché non tutti hanno un laboratorio CSI a disposizione, ma tutti possono avere occhi attenti (e magari una macchina forografica) praticamente in ogni circostanza. E in più è bene controllare se i risultati del laboratorio CSI sono in accordo con quanto gli occhi hanno visto in campo…. Però, quando l’uva diventa vino, allora sì, CSI è indispensabile per riconoscervi delle tracce del DNA dell’uva di origine. 

Queste analisi del DNA, che si basano sullo studio di alcuni tratti specifici del genoma dell’individuo, chiamati marcatori molecolari, oggi sono molto più economiche rispetto al passato e dunque più accessibili. Si basano sempre sul confronto con riferimenti di profili genetici noti contenuti in banche dati, proprio come quelle che i poliziotti utilizzano per individuare i criminali. Queste analisi indicano in definitiva l’identità di un vitigno, ovvero di che varietà di vite si tratta. 

Quello che è una novità, è che da oggi non solo si può estrarre DNA dalle varie parti della pianta ma anche dal vino, anche se qui il DNA dell’uva di partenza si trova molto degradato e solo in tracce, per via dei processi di elaborazione dell’uva in vino. Come è possibile analizzare DNA contenuto in infinitesime quantità? Si lavora su un DNA molto speciale, il DNA cloroplastico, ovvero quello contenuto in piccoli organelli presenti in ogni cellula vegetale. Questo DNA è molto più stabile rispetto al DNA principale (che è quello nucleare), ed è soprattutto presente in ogni cellula in un numero elevato di copie (da 200 a 400). Una bella quantità di una stessa piccola molecola! 

L’analisi di questo DNA con marcatori microsatelliti (dei piccoli frammenti di DNA diversi da una varietà all’altra) marcati con sostanze fluorescenti, ci permette di risalire al genotipo, ovvero al vitigno utilizzato per produrre il vino. Non solo, ci permette anche di capire se un vino è ottenuto mescolando uve di vitigni differenti. 

Oltre all’identificazione nel vino delle uve di partenza, altrettanto seducenti sia per le aziende produttrici di vino che per i consumatori, sono tutte quelle diavolerie che vi presenteremo a seguire, e che sanno indicare quando si raggiunge il migliore livello qualitativo nelle uve senza staccarle dalla pianta, o ricercare nel vino le impronte di una particolare traccia olfattiva, o del territorio dove il vino è stato prodotto.

Sarà presentato il 27 maggio prossimo all’Expò di Milano, durante il convegno “La sfida dei sistemi tecnologici: la tracciabilità della filiera vite-vino”, “Certificazione genetica del vino di origine siciliana”, il rivoluzionario progetto messo a punto da un team di ricercatori dell’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Palermo e della società di ricerca e sviluppo Bionat Italia Srl, anch’essa di Palermo, che, attraverso l’identificazione genetica delle sequenze dei vitigni, e il confronto con ciò che è riportato nelle etichette delle bottiglie, permetterà di tracciare con certezza il prodotto, con poche gocce di vino e in soli trenta minuti, tutelando così produttori e consumatori da ingannevoli informazioni.
Ciò servirà a proteggere il vino dalle contraffazioni e a riscoprire e valorizzare i vitigni tipici siciliani.
Si tratta di una tecnica che rivoluziona il criterio delle certificazioni ‘Doc’, ‘Dop’ o ‘Igp’, che lasciano ampi margini di discrezionalità, poiché si basano solo sul controllo dei processi di produzione.


Il CNR e Bionat Italia hanno già intrapreso studi nel settore della tracciabilità dei prodotti agroalimentari, contribuendo così a far riscoprire varietà minori di interesse locale, dimenticate dai mercati.

Questa ricerca, realizzata nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale della Regione Siciliana, rappresenta un progresso in continua crescita.

“La caratterizzazione genetica, spiega il responsabile del CNR/IBBR Palermo, Francesco Carimi, attraverso analisi molecolari permette di individuare in maniera definitiva i vitigni utilizzati nella vinificazione, rilevando subito la presenza di eventuali adulterazioni”.

“Il vino è storia, cultura, racconto del territorio, continua Carimi, attraverso le nostre analisi spesso riusciamo a coniugare l’obiettivo della tracciabilità con il riconoscimento, o la riscoperta, di vitigni tipici da valorizzare e da tutelare, ad esempio consultando testi antichi, o ascoltando i racconti di vecchi contadini, la vera ‘memoria storica’ del nostro Paese”.



Hanno aderito al progetto cinque cantine siciliane, dove è possibile reperire i vini ‘certificati geneticamente’.
Bionat Italia, grazie ai risultati ottenuti, realizzerà e commercializzerà strumenti e kit portatili, semplici da utilizzare, per sottoporre il vino al test del Dna, stabilirne con certezza l’origine e contribuire così alla valorizzazione delle produzioni vitivinicole di qualità.




Grazie a questo progetto è stato realizzato un nuovo marchio di qualità, fondato su metodi scientifici e innovativi, in grado di certificare l'autenticità del prodotto, del territorio di origine e dei lieviti per la fermentazione alcolica.

Il convegno del prossimo 27 maggio sarà uno dei 24 eventi che il CNR, in qualità di consulente scientifico del Padiglione Italia a Expò 2015, presenterà insieme a Bionat Italia s.r.l. per comunicare al vasto pubblico internazionale gli eccellenti risultati ottenuti attraverso le scoperte scientifiche, realizzate soprattutto in relazione al tema principale della mostra universale: "Nutrire il pianeta, energia per la vita".



Il 27 maggio prossimo all’Expò di Milano sarà presentato dal CNR un prototipo in grado di misurare alcuni parametri fisici e chimici caratterizzanti l’aroma del vino.
Tra le sfide tecnologiche degli ultimi 20 anni vi è quella della tracciabilità dei cibi a conclusione del processo produttivo, attraverso l’uso di sensori in grado di fornire informazioni all’utente, in tempo reale, relative alla loro qualità e alle loro proprietà organolettiche.

"Il progetto Certificazione genetica del vino di origine siciliana ha avuto come obiettivo la realizzazione di un nuovo marchio di qualità, basato su metodi scientifici ed innovativi, in grado di certificare l'autenticità del prodotto (tramite metodologie genetiche), l'autenticità del territorio di origine (tramite metodologie biogeochimiche) e l’autenticità dei lieviti per la fermentazione alcolica (tramite metodologie microbiologiche).

Il numero di varietà di piante di vite (Vitis vinifera) presenti nelle collezioni di germoplasma di tutto il mondo è stimato intorno a 10.000-14.000. In passato la caratterizzazione di questa grande diversità si è basata sull’ampelografia, la descrizione dei caratteri morfologici rilevati durante le diverse fasi di sviluppo della pianta. Il metodo è stato utile a caratterizzare i principali vitigni, tuttavia questi caratteri sono fortemente influenzati da fattori ambientali e dallo stato sanitario e nutrizionale delle piante. Per queste ragioni si sono resi necessari metodi d’identificazione alternativi e più affidabili,in grado di discriminare i vari vitigni..."



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